In Italia e in giro per il mondo c’è grande interesse verso l’economia civile, quel modello di sviluppo
inclusivo, partecipato e collaborativo che parte del basso e che rappresenta una valida risposta alla crisi.
Stefano Zamagni, economista italiano, ordinario all’Università di Bologna, Adjunct Professor of
International Political Economy alla Johns Hopkins University, socio fondatore e docente della Scuola di
Economia Civile, intervenuto con una lectio magistralis sul tema al primo Festival dell’economia civile a
Campo Bisenzio (Fi), traccia la strada. Bisogna operare sulla finanza, sulla formazione e inserire
l’economia civile nella legge fondamentale dello stato, la Costituzione.

Professor Zamagni che cosa è l’economia civile e perché la sfida per un nuovo modello di sviluppo
passa proprio per l’economia civile?

L’economia civile è una tradizione di pensiero economico nata, anche se non aveva questo nome, in
Toscana nel 1400 durante l’umanesimo civile. Poi questa tradizione è continuata fino a che nel 1753
l’università di Napoli istituì la prima cattedra al mondo di economia civile. Da Napoli questo modo di
affrontare la tematica economica si è diffusa e a Milano ha incrociato il pensiero di Pietro Verri, Gian
Domenico Romagnosi e tanti altri pensatori. L’idea di base è quella di rifiutare l’assunto antropologico
homo hominis lupus che troviamo al centro del paradigma dell’economia politica, secondo la quale ogni
uomo è un lupo nei confronti degli altri uomini. Per l’economia civile l’assunto, che venne così descritto
da Antonio Genovesi padre del primo cattedrato di economia civile, è homo homini natura amicus, ogni
uomo è per natura amico dell’altro uomo. Da queste differenziazioni derivano una serie di conseguenze.
Se parto dal presupposto che tu sia un lupo nei miei confronti diffido di te. Se invece parto dall’idea che
sia potenzialmente un amico imposterò le mie relazioni con te e in generale quelle economiche in una
forma diversa. Ecco perché in Italia e in giro per il mondo c’è un ritorno di interesse all’economia civile,
perché ci si rende conto che rimanendo incastrati nel paradigma dell’homo economicus i grossi problemi e
nodi delle società di oggi non possono essere risolti.

Lei ha definito l’economia civile come la terza gamba del Paese. Perché?

Perché garantisce biodiversità economica. L’economista civile chiede che accanto a imprese e soggetti
che restano attaccati all’idea dell’homo economicus sia lasciato abbastanza spazio anche a chi è portatore
di una visione diversa, come le imprese che noi chiamiamo civili e che operano per tendere al bene
comune e non al bene totale. In questo senso si può parlare di terza gamba, ma il punto fondamentale è
che l’obiettivo ultimo è civilizzare il mercato per far in modo che tutte le imprese diventino civili. Allo
stesso tempo sappiamo che questa può essere una aspirazione o una tendenza, non la si può imporre.
L’importante è che, come sta avvenendo nel nostro come in altri Paesi, nascano dal basso realtà
economiche che si chiamano imprese sociali, piuttosto che cooperative sociali, benefit corperation come
vengono definiti negli Stati Uniti, che possono dispiegare il loro potenziale di soggetti d’impresa non più
finalizzata al solo profitto ma anche alla produzione di utilità sociale.

La disuguaglianza economica e sociale colpisce sempre più il nostro Paese. Può l’economia civile
arginarla?

Il tema della disuguaglianza sociale è uno dei grossi nodi non solo per l’Italia. Però il nostro Paese è
messo male perché abbiamo il coefficiente di Gini, un indicatore statistico dal nome di Corrado Gini, che
misura la disuguaglianza, di circa lo 0,53, pari a quello degli Stati Uniti, il massimo è uno. Di questo
nessuno ne parla in Italia, ma è troppo elevato rispetto alle condizioni di un Paese come il nostro. Però è
evidente e dimostrato che nelle aree del Paese dove è più forte l’insediamento di imprese che ispirano il
proprio comportamento alla logica dell’economia civile il tasso di disuguaglianza è più basso. Perché
l’impresa civile include, e quando uno è incluso ovviamente soffre molto meno le disuguaglianze rispetto
a chi è marginalizzato o escluso dal mercato del lavoro e dal processo produttivo.

Quanto è diffusa l’economia civile in Italia?

L’economia civile ha avuto i natali nel nostro paese ed è ovvio che ci sia una diffusione in termine di
percentuali più alta rispetto ad altri paesi. E lo vediamo in alcuni esempi come la finanza etica: abbiamo
la Banca Etica nata vent’anni fa che ha raggiunto livelli di notevole interesse; ci sono imprese cooperative
di tutti i tipi; abbiamo l’associazionismo organizzato tipo Legambiente e altre forme associative. Ma soprattutto il termine economia civile è entrato ormai nell’uso comune. Quando lo lanciai esattamente
ventuno anni fa in un seminario proprio a Firenze, tutti pensavano che mi fossi sbagliato, che volessi
intendere l’economia civica come l’educazione civica. Oggi però tutti sanno che c’è questa alternativa di
sguardo e di azione. Ovviamente bisogna insistere, perché la normativa e la legislazione vigente consenta
a questi soggetti non solo di sopravvivere ma di fiorire, e a questo non siamo ancora arrivati. La recente
riforma del cosiddetto terzo settore va in questa direzione: per la prima volta si riconosce legittimità
giuridica a forme di imprese che non hanno più il profitto come unico scopo o unico fine del proprio
ciclo.

Di quali interventi politici o normativi c’è bisogno per dare maggiore slancio all’economia civile?

Il ruolo della politica è importante. Si dovrebbe far di più per essere onesti, che non vuol dire che non si
fa nulla. La recente approvazione della legge è un passo nella direzione giusta, ma è un primo passo. Ci
sono alcuni nodi che vanno risolti il primo è quello della finanza, perché le imprese capitalistiche hanno i
propri strumenti per finanziare i propri progetti ma coloro i quali seguono l’altra via dove vanno a
finanziarsi? Non possono andare in borsa, emettere azioni o obbligazioni, non possono avere accesso al
credito bancario. O meglio potrebbero averlo ma sarebbero schiacciati dai tassi di interessi praticati. Se si
vuole essere seri, bisogna consentire a questi soggetti, che non sono contrari ma alternativi, di poter
decollare senza dover dipendere dalla benevolenza pubblica, cioè dai soldi degli enti locali. L’altro livello
riguarda il piano propriamente culturale: la classe politica non capisce che queste cose devono entrare nei
programmi di studio, dal liceo all’università. Io tengo un corso di economia all’università di Bologna, ma
negli altri atenei non ci sono corsi di questo tipo perché non sono previsti dalle tabelle ministeriali. Infine
il terzo livello, che è l’aspirazione massima: arrivare alla costituzionalizzazione del civile. Oggi la
Costituzione, salvo un’eccezione all’art. 43, dice che le forme di intervento sono private o pubbliche. Fino
ad ora ci siamo retti su questo modello dicotomico stato-mercato, pubblico-privato, ma non c’è solo il
pubblico-privato c’è anche il civile. Ecco allora che farlo inserire nella legge fondamentale dello stato è
un traguardo, e mi auguro che sia raggiunto nel più breve tempo possibile.